Il colore in Leonardo da Vinci di Lucia Ghirardi

La versatile genialità di Leonardo da Vinci lo portò a dedicarsi nel corso della sua vita a molteplici settori di studio e di attività; l’opera esplicata nei vari campi scientifici appare quantitativamente maggiore che non la stessa attività artistica.
Tuttavia non esiste a ben vedere né conflitto né frattura tra l’artista e lo scienziato.
La sua intensa attività scientifica si espresse in una imponente raccolta di scritti corredati da schizzi e disegni innumerevoli che, ancora una volta, segnano un anello di congiunzione tra l’artista e lo scienziato.
D’altra parte, quando Leonardo operò nel campo artistico, egli fu continuamente stimolato dallo stesso spirito di osservazione scientifica: ne sono prova il suo “Trattato della Pittura”, le continue sperimentazioni tecniche, la precisione appunto “scientifica” di schizzi preparatori di molti particolari dei quadri.
Si può dire, in conclusione, che le inesauste ricerche intorno ai segreti della natura non fornirono a Leonardo soltanto una profonda conoscenza delle forme, ma lo condussero soprattutto ad una visione lirica del mondo e della vita, fondata sul concetto degli innumerevoli nessi che legano ogni molecola del creato, come pure del perpetuo tramutarsi della materia: e questo concetto si tradusse appunto nell’impalpabile, molecolare motilità della sua forma pittorica.

Nato a Vinci nel 1452, Leonardo si trasferì diciassettenne a Firenze presso la bottega del Verrocchio; nel “Battesimo” di questi egli avrebbe esordito dipingendo l’angelo di sinistra, di una morbidezza vaporosa nel profilo e nei lunghi capelli.
A Leonardo nello stesso dipinto si attribuisce concordemente anche lo sfondo di paesaggio avvolto in una bruma azzurrina, di una concezione pittorica opposta alla bronzea palma verrocchiesca, in primo piano.
Queste premesse stilistiche maturano “L’Annunciazione” degli Uffizi nella quale, tuttavia, i legami con la cultura verrocchiesca sono ancora ben visibili nel leggio davanti alla Vergine, tanto simile al sarcofago mediceo del Verrocchio nella Sacrestia fiorentina di San Lorenzo.
Dalla presumibile data di questo dipinto, 1472, sino al 1480 circa, la pittura di Leonardo prende forma definitiva, nella tecnica e nell’ispirazione, in una serie di disegni e in varie figurazioni di Madonne, tra cui sopravvivono la “Madonna di Benois” di Leningrado e quella di Monaco.

Di questo momento è anche il ritratto di “Ginevra Benci” nel cui volto campeggiante contro il delicato rameggio vegetale dello sfondo, si intravede già un che di allusivo e di velato rispetto al realismo del ritratto fiorentino.
La tradizione disegnativa e chiaroscurale fiorentina, infatti, subisce in Leonardo un processo di revisione critica per cui l’acutezza impercettibile del segno coglie ogni labilità di posa instabile, di trascorrente espressione, di mutevole “lume”; la linea incisiva di contorno si dilata in zona d’atmosferico trapasso dalla penombra alla mezza luce, diviene “sfumato”.
Intorno al 1482, Leonardo inizia il “San Girolamo” in cui l’assenza del colore e la trattazione esclusivamente disegnativa e chiaroscurale sono in armonia con il tema dell’ascesi; il “furore di indagine anatomica” dei fiorentini trapassa da un interesse scientifico a una potente sintesi drammatica del corpo scarnito, dove la pelle si tende e si infossa con tragica evidenza.
Passato da Firenze a Milano, al servizio di Lodovico il Moro (1482), l’artista inizia un periodo assai fecondo per ogni sua attività ed investigazione e dà vita, in pittura, a due capolavori quali la “Vergine delle rocce” e “l’Ultima Cena”.

Ritorna nel primo l’ambientazione ombrosa entro una complicata architettura naturale di rocce, che filtra e attende la luce del giorno per donare più delicata dolcezza alle figure del gruppo; lo scorcio della mano destra della Vergine sembra determinare, per magnetico effetto i gesti dell’angelo e del Bambino; i quattro visi paiono ruotare lentamente intorno a un medesimo perno.
L’intima coscienza di un incessante trascorrere di legami dall’una all’altra forma vivente trova infine la sua forma più universale “nell’ Ultima Cena” dipinta nel Refettorio del Convento delle Grazie.
Nell’incerta luce del crepuscolo Gesù ha annunciato agli apostoli che qualcuno di loro lo tradirà; e la sua posa di calma accettazione emerge per contrasto nel tumulto di moti fisici e psicologici che la frase solleva tra i convitati.
Attraverso il velo dei guasti prodotti dall’umidità l’elemento più vivo del grande affresco rimane quest’onda di affetti che spartisce e raggruppa, tre a tre gli astanti; l’avara luce che entra dal fondo delle finestre e che piove da un’altra fonte in alto a sinistra definisce sobriamente i lacunari del soffitto, gli arazzi scuri che si alternano in prospettiva sulle pareti bianche e sottolinea la sequenza ritmica dei volti e delle mani.
Caduta la Lombardia sotto i francesi nel 1499, Leonardo si trasferisce a Mantova e a Venezia, ma raggiunge di nuovo ben presto Firenze, dopo un breve periodo di attività presso Cesare Borgia in Romagna.
La sua città lo accoglieva con un compito grandioso, un affresco raffigurante la battaglia d’Anghiari che doveva fronteggiare quello di Michelangelo con la battaglia di Càscina, in Palazzo Vecchio.
Il cartone compiuto nel 1505, si deteriorò ben presto fino a dissolversi pochi anni dopo.
Nello stesso periodo egli dipingeva il celeberrimo ritratto della “Gioconda” in cui, al di là del romanzesco e dell’enigmatico che la leggenda ha tessuto intorno a quel volto femminile, l’artista riassume in modo totale il suo credo pittorico, la sua visione del mondo.
L’ambigua luce del crepuscolo tornisce e svela un’immagine che la piena luce del giorno rileverebbe come monumentale; trae da arcane lontananze il miraggio di un cosmo dilavato e corroso dall’azione millenaria delle acque.
L’incerto e scorrevole “lume” determina l’effetto di moto connaturato alla realtà stessa, che come è vicenda inarrestabile di fenomeni naturali nel paesaggio.
Dal 1506 al 1513, Leonardo è di nuovo a Milano, salvo qualche breve soggiorno altrove, presso la corte del Governatore Carlo D’Amboise.
Il solo dipinto sicuro di questo periodo milanese è “Sant’Anna” del Louvre; la tavola di larghissimo respiro era stata preceduta da vari cartoni preparatori; la composizione vi raggiunge la più alta ed ardita coerenza, tutta impostata com’è intorno ad un perno ideale: ogni immagine è intimamente legata all’altra in una serratissima ed affettuosa sequenza di gesti tra la madre Anna, la figlia Maria, il Bimbo, l’agnello.
La rotante articolazione del gruppo si inserisce in un paese affiorante come miraggio favoloso, che par fissare liricamente le folgoranti intuizioni scientifiche di Leonardo sulla genesi geologica.
Con il “San Giovanni il Battista” che emerge dall’ombra e indica, con l’espressivo e misterioso gesto della mano, il cielo, la teoria leonardesca delle ombre è portata alle sue estreme conseguenze: l’immagine è fatta vivere dal fluttuante e incessante trapasso dall’ombra in luce.
Nel 1516, Leonardo lascia l’Italia su invito del re Francesco I e portando seco i suoi quadri più cari si stabilisce insieme ai suoi allievi prediletti nel castello di Cloux presso Amboise.
Alcuni disegni, ma nessun quadro, risalgono a questi anni estremi; poichè egli doveva presto spegnersi, il 2 maggio 1519.